IL TRIBUNALE Decidendo nel processo penale n. 93/1996 reg. trib. a carico di Foscaldi Gianfranco e Spagnuolo Giuseppe, imputati rispettivamente dei reati di cui agli artt. 416-bis, 81 c.p.v., 110, 112 nn. 1) e 2), 629 commi 1 e 2, in relaz. all'art. 628 III nn. 1) e 3) c.p., 7 legge n. 203/1991, artt. l e 2 legge n. 895/1967 e succ. modif., 423, 635 cmmi 1 e 2 n. 3), 56, 575, 577 c.p., artt. 10, 12 e 14 legge n. 497/1974, 648, 482 in relaz. all'art. 476 c.p. e 110, 416-bis, 110, 56, 575, 577 n. 3) c.p., 7 legge n. 203/1991; Osserva In data 16 maggio 1997 il tribunale, sentite le richieste avanzate dalle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame dell'imputato in procedimento connesso Montesano Francesco, avendone fatto apposita richiesta la difesa degli imputati, per cui veniva disposta la sua citazione per l'udienza del 6 giugno 1997; tuttavia in detta occasione il medesimo non compariva spontaneamente, pur in presenza di regolare notifica, per cui veniva disposto il suo accompagnamento coattivo per il 14 novembre 1997, occasione in cui il Montesano, pur comparendo al cospetto del collegio, con l'assistenza del difensore d'ufficio avv. Cordasco Mauro, si avvaleva della facolta' di non rispondere. Essendo in itinere mutato il tenore normativo dell'art. 513 c.p.p. il presidente innanzi alla richiesta del p.m. volta ad acquisire al procedimento le dichiarazioni rese dal Montesano al p.m. nel corso delle indagini preliminari, interpellava i difensori per l'espressione del consenso all'acquisizione, ma questi lo negavano. Di conseguenza il p.m. sollevava eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. cosi' come modificato dalla legge n. 267/1997, per tutte le ragioni di cui al verbale di trascrizione della relativa udienza. Interpretazione dell'art. 513 c.p.p., come novellato dall'art. l legge n. 267 del 1997. L'art. 513 c.p.p, come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997, dispone: "il Giudice, se l'imputato e' contumace o assente, ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al p.m. o alla polizia giudiziaria su delega del p.m. o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso. Se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e' possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell'art. 512, qualora l'impossibilita' dipenda da fatti e circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti. Se le dichiarazioni di cui ai commi l e 2 del presente articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le disposizioni di cui all'art. 511 c.p.p.". Come traspare con evidenza la norma novellata, con riferimento alla posizione dell'imputato in procedimento connesso - che e' l'unica che qui rileva - e' finalizzata ad ottenerne la presenza in dibattimento per poter sottoporre il medesimo ad esame, nel contraddittorio delle parti, e nell'evenienza che questi si avvalga della facolta' di non rispondere prevede, come condizione per procedere alla lettura, con correlata acquisizione al fascicolo dibattimentale, delle dichiarazioni gia' rese nel corso delle indagini preliminari (di cui al comma 1), l'accordo di tutte le parti presenti nel processo. Ne consegue l'evidente attribuzione della potesta', conferita ex lege, a ciascuna delle parti di vietare la lettura, l'acquisizione e l'utilizzazione delle dichiarazioni suindicate mediante la mera negazione del consenso, che impedisce il perfezionamento di una sorta di "accordo sulla acquisizione" finendo tuttavia con l'incidere radicalmente sulla fase di acquisizione della prova, momento centrale del processo penale. L'art. 6 commi 1 e 2 della legge n. 267/1997 prevede una sorta di "regime transitorio", allorquando statuisce che: "Nei procedimenti penali in corso il p.m. puo' avvalersi della facolta' di cui al comma l lett. c) e d) dell'art. 392 c.p.p., come modificate dall'art. 4 della presente legge, anche dopo l'esercizio dell'azione penale, se ne fa richiesta al giudice delle indagini preliminari entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Nel giudizio di primo grado in corso, quando e' stata disposta la lettura, nei confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 513 c.p.p. al p.m. alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o all'udienza preliminare, ove le parti lo richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame". Nell'ordinanza emessa in data 16 maggio 1997 questo tribunale aveva ritenuto, a fronte delle richieste del p.m. di acquisire al fascicolo del dibattimento tutti gli atti istruttori (verbali di prova) assunti nell'ambito del procedimento penale n. 525/1993 (da considerarsi "principale" rispetto al processo odierno, incardinatosi in seguito a stralcio, operato dal giudice a quo per difetti di notifica nei confronti di tre imputati), ai sensi dell'art. 238 c.p.p., tra cui le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari al p.m. da Montesano Francesco, collaboratore di giustizia - che non veniva escusso personalmente dal giudice del procedimento originario, che si limitava ad acquisirne le propalazioni accusatorie (ed autoaccusatorie) ai sensi del previgente testo dell'art. 513 c.p.p. che tali dichiarazioni non potevano essere acquisite, avendo il dettato normativo dell'art. 238 c.p.p. delimitato tale evenienza ai soli atti "assunti", cioe' compiuti nel dibattimento a quo cui non possono essere evidentemente equiparate le dichiarazioni "acquisite" ex art. 513 comma 2 c.p.p., per cui respingeva in parte qua la richiesta probatoria del p.m. disponendo la personale comparizione del Montesano che, successivamente, (accompagnato coattivamente dai Carabinieri, giusta ordinanza del Collegio) si avvaleva della facolta' di non rispondere. Appare fin troppo evidente, in merito, che nel corso della celebrazione del dibattimento, con riferimento alle dichiarazioni dell'imputato in procedimento connesso di cui non sia stata data lettura e' doverosamente applicabile la disciplina ordinaria stabilita dall'art. 513 comma 3 c.p.p., come sostituito dall'art. l (cui fa sostanziale riferimento l'art. 6) legge n. 267/1997, senza che al p.m. sia consentito di chiedere l'incidente probatorio nella fase processuale in cui il procedimento versa, quella della istruzione dibattimentale, come tale successiva all'emissione dell'ordinanza ex art. 495 c.p.p. Cio' in quanto e' ragionevole ritenere che nel corso della celebrazione del dibattimento non appare neanche prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di assunzione della prova che gli sono proprie, al fine di prevenire la inefficacia di una prova ritualmente assunta (ed acquisibile, nelle evenienze di legge), presumibilmente non rinnovabile in futuro. Ma anche ritenendo (per mera astrazione) che l'esperimento dell'incidente probatorio fosse ammissibile in tale fase, si finirebbe con il conferire ad una sola parte il potere di sottrarre al giudice procedente quell'immediato contatto con la prova nel momento della sua genesi e del suo pieno dispiegarsi, compromettendo altresi' la sua potesta' di formulare al dichiarante nuove domande (art. 506 c.p.p.). Di fronte all'applicabilita' della nuova disciplina senza poter far ricorso agli istituti processuali del regime transitorio disegnati dal legislatore della novella, il p.m. ha prospettato un dubbio di costituzionalita' in relazione alla mancata previsione di un meccanismo di recupero analogo a quello previsto dall'art. 6, comma 5, legge n. 267/1996, nel caso in cui, come quello che ci occupa, il dibattimento sia gia' iniziato, ma l'imputato in procedimento connesso non sia stato ancora sottoposto ad esame, avvaldosi della facolta' di non rispondere. In realta', ritiene il Collegio, che la norma da ultimo citata non contenga affatto un meccanismo volto a recuperare le dichiarazioni rese dai soggetti che si trovano in una simile posizione, ma, al contrario introduca un limite di valutazione della prova gia' acquisita. Il fine perseguito, invero, pare essere quello di cercare un contemperamento tra la nuova disciplina e quella pregressa, consapevole dell'impossibilita' di creare una singolare categoria di "inutilizzabilita' sopravvenuta". Pertanto la disposizione in parola si caratterizza, in via principale, per uno spiccato favor defentionis in linea con l'intera ratio ispiratrice della riforma (sostanzialmente, il legislatore, sembra aver aderito a quella autorevole dottrina che considera l'intera disciplina della prova quasi parasostanziale, esplicante i suoi effetti favorevoli all'imputato anche successivamente all'introduzione della norma). Se questo e' l'angolo prospettico abbracciato dal legislatore nel dettare la disposizione di cui al comma 5 dell'art. 6, l. cit., e' chiaro che la norma non puo' essere invocata per i fini indicati dalla pubblica accusa. Cio' nondimeno, ritiene il Collegio, che debba essere valutata, in ogni caso, la conformita' a costituzione della disciplina introdotta, la sola applicabile, come osservato, nel caso di specie. E' opportuno premettere che la previsione della c.d. disciplina transitoria assume comunque rilievo al solo fine di vagliare la concreta possibilita' per il p.m. di azionare il nuovo meccanismo "allargato" dell'incidente probatorio. Di certo scopo della norma e' quello di favorire l'instaurazione effettiva del contraddittorio dibattimentale, sia verificando, con l'ammissione delle parti ad una nuova richiesta di citazione, l'interesse che esse manifestino all'esercizio effettivo di quella facolta' (ed in tal caso delle dichiarazioni lette in precedenza permane la piena utilizzabilita'), che imponendo un nuovo esame del soggetto dichiarante nel caso in cui siffatta richiesta venga avanzata da una delle parti, che proprio azionando tale facolta' puo', in concomitanza di condotte che rendano di tali atti impossibile il compimento, o perche' il soggetto non si e' presentato (ed e' la situazione che si riferisce all'imputato) o perche' si e' avvalso della facolta' di non rispondere (situazione che puo' verificarsi sia con riferimento all'imputato che all'imputato in un procedimento connesso), influenzare il regime di utilizzabilita' delle dichiarazioni gia' acquisite, che verra' a mutare secondo quanto disposto dal comma 5 del citato art. 6 (Cass. pen. sez. I ud. 29 settembre 1997, sent. n. 1213 imp. Cascino ed altri). Siffatta norma introduce, come osservato, non gia' una regola di ammissione od assunzione della prova, che anzi la legge suppone avvenute, ma una regola di valutazione della prova che si atteggia in termini di parziale esclusione del valore probatorio delle dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate nell'art. 513 c.p.p. previgente, nel senso che esse possono fondare la dichiarazione del risultato di prova quando la loro attendibilita' sia confermata aliunde (da altri elementi di prova), ma non possono svolgere esse stesse la funzione di conferma; in tal modo il legislatore attribuisce efficacia generatrice di prova alle dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 previgente la cui credibilita' sia confermata da elementi di prova diversi da dichiarazioni della medesima natura, contestualmente operando una negazione del valore probatorio a dichiarazioni di quel genere che si confermino reciprocamente. Va infine puntualizzato che la norma transitoria di cui all'art. 6 legge n. 267/1997, a lungo citata dal p.m. d'udienza che ne ha lamentato la incostituzionalita', trova applicazione in tutti i casi in cui, durante il giudizio di primo grado e prima della sua entrata in vigore, sia stata disposta la lettura oppure, anche senza previa lettura, siano stati acquisiti al fascicolo del dibattimento ex art. 513 c.p.p. verbali di dichiarazioni rese dalle persone ivi indicate al p.m., alla polizia giudiziaria su delega del p.m., al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare. Viceversa, nel corso del giudizio di primo grado, trova applicazione la disciplina ordinaria - art. 513 comma 2 c.p.p. come sostituito dall'art. l legge n. 267/1997 in tutti i casi in cui l'esame degli imputati in procedimento connesso non si sia ancora svolto alla data di entrata in vigore della norma novellatrice. Tanto premesso questo Collegio ritiene non manifestamente infondato prospettare d'ufficio profili di illegittimita' costituzionale della normativa de qua sotto un duplice aspetto logico sistematico. Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art. 513 c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267/1997. Non puo' disconoscersi, dalla valutazione della fattispecie in esame, la rilevanza della eccezione di costituzionalita' del disposto dell'art. 513 comma 2 c.p.p., come sostituito dalla legge n. 267/1997, risultando evidente che l'esame di Montesano Francesco era gia' stato ammesso dal tribunale, che aveva ritenuto "assolutamente necessario" l'esperimento di tale mezzo di prova, atteso che, nella prospettazione accusatoria, le dichiarazioni del predetto vengono dedotte a conforto delle propalazioni accusatorie rese da Recchia Antonio, esaminato, nel contraddittorio delle parti, nel corso del procedimento "principale" celebratosi innanzi al tribunale di Castrovillari (in diversa composizione) e le cui verbalizzazioni sono state acquisite al fascicolo del dibattimento che ci occupa (essendo state assunte ex art. 238 c.p.p.) con ordinanza del 16 maggio 1997, e che la norma in questione subordina l'acquisizione delle dichiarazioni del Montesano, che si e' avvalso della facolta' di non rispondere nel corso della udienza del 14 novembre 1997, al consenso delle parti, cioe' al verificarsi di una condicio sine qua non, la cui previsione e' oggetto dei piu' penetranti sospetti di incostituzionalita'. A) Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 comma 2 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle parti la lettura dei verbali de quibus e la loro acquisibilita' al fascicolo del dibattimento. In via preliminare occorre evidenziare che la normativa di cui si sospetta la illegittimita' costituzionale va ad innestarsi nel delicato rapporto di equilibri delineato dal tracciato del codice vigente, il cui punto nodale va individuato nella regolamentazione dei rapporti tra la fase delle indagini preliminari e quella dibattimentale, da contemperare con i principi a lungo elaborati dalla stessa giurisprudenza costituzionale circa l'esercizio dei poteri delle parti nella formazione dibattimentale della prova, da valutarsi non disgiuntamente ai criteri informatori del razionale e motivato convincimento personale. Nessun dubbio puo' nutrirsi sul fatto che le norme di cui si denuncia l'incostituzionalita' siano ispirate ad un evidente depotenziamento del valore probatorio delle acquisizioni avvenute in fasi di indagini ed in assenza di contraddittorio, ricorrendo al conferimento alle parti di un potere discrezionale circa il loro ingresso nel fascicolo per il dibattimento, cui e' riconnesso un meccanismo innovativo di esclusione della prova. Orbene, nel prendere consapevolezza del fatto che la scelta del legislatore si e' sostanzialmente tradotta nella marcata accentuazione di alcuni aspetti particolari del processo accusatorio come processo di parti (che si e' concretizzato nella positivizzazione, del tutto innovativa, del principio dispositivo in materia di prova), occorre operare una puntuale verifica al fine di valutare se, alla stregua dei principi elaborati dalla giurisprudenza venutasi a formare nelle materie coinvolte dalla innovazione normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali, che la stessa Corte ha sovente evidenziato, alla introduzione nel nostro ordinamento di un processo penale conforme ad un modello astratto (di stampo puramente accusatorio) di processo penale di parti. Giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di valutazione della prova e di regole di esclusione dei mezzi di prova. In subiecta materia sovente la Corte costituzionale ha incentrato il suo intervento "correttivo", ogni qualvolta la lesione dei principi costituzionali lo rendeva necessario; partendo da una premessa metodologica di base, il giudice delle leggi ha avuto modo di affermare il principio secondo cui "la considerazione dell'ordinamento processuale penale italiano va condotta, a prescindere dalle astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che il sistema processuale delineato nella legge delega poi concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' (art. 2, comma 1) ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che seguono (sentenza n. 88 del 1991) e che poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di attuare i principi della Costituzione, un'adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata ad apportare". Cio' in quanto la stessa natura "ibrida" del modulo processuale delineato nel codice di rito (continuamente innovato dal legislatore, anche in funzione dei mutamenti sociali e culturali, magmaticamente in atto nel paese) imponeva (ed ha inevitabilmente comportato) un costante controllo della Consulta sulla compatibilita' degli istituti processuali positivizzati con i principi costituzionali di riferimento, imponendo sovente la enunciazione di parametri guida cui rapportare la frenetica evoluzione normativa che, con particolare riguardo a tematiche processuali di particolare rilievo (tra cui quella della valutazione delle prove assurge a ruolo primario), non puo', in conseguenza di cio', che uniformarsi, nella quotidiana produzione legislativa e nella ermeneutica che la involge, alle direttrici sistematicamente indicate dalla Corte; tra queste non possono essere sottaciute quelle affermazioni e decisioni in cui sono stati puntualmente esplicitati i caratteri costituzionali propri della azione e della giurisdizione penale, la funzione euristica assegnata al processo penale, all'interno del quale svolge un ruolo di assoluta pregnanza il valore costituito dalla ricerca della verita' c.d. reale o materiale, quasi in contrapposizione a quella formale o processuale. Cio' premesso va innanzitutto evidenziato che, per quanto attiene alla delicata opera di individuazione dei paradigmi costituzionali dell'azione e della giurisdizione penale la Corte, pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni di ricusazione fondate sui medesimi motivi, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n. 11 del 1997) la esistenza del "... principio di indefettibilita' della giurisdizione, ricollegabile a vari principi costituzionali, fra i quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre alla sentenza n. 353/1996 e l'ordinanza n. 5/1997, cfr le sentenze nn. 460/1995, 114/1994, 289/1992, 178/1991)". In tutte queste occasioni le pronunce del giudice delle leggi, ponendo a raffronto il principio de quo con quello di uguaglianza, inteso come "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali", ha contestualmente puntualizzato: "E qui va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino ad un uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale". Per quanto attiene alla funzione ed al ruolo svolto, all'interno del processo penale, dal p.m., la Corte ha gia' avuto occasione per esprimersi in modo assai chiaro nella sentenza n. 88/1991 "Va innanzitutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe ad affermare nella sentenza n. 84 del 1979, cioe' che l'obbligatorieta' dell'esercizio della azione penale ad opera del p.m. ... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire da un lato l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale"; ne consegue che tale esercizio dell'azione e' attribuito all'organo istituzionalmente preposto "senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio". In sostanza la Consulta ha gia' inequivocamente ribadito, in piu' di una occasione, che il principio di legalita' (art. 25 comma secondo, Cost.) che rende inderogabilmente doverosa la repressione di condotte violatrici della legge penale non puo' disgiungersi, nella sua concreta attuazione, dalla legalita' del procedere, che puo' effettivamente operare in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, soltanto coniugandosi con il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale; e questo sara' ipotizzabile soltanto se l'organo cui l'esercizio dell'azione penale e' demandato e' indipendente da altri poteri, sicche' il requisito della indipendenza del p.m. si appalesa imprescindibile, per la pregnanza del ruolo che riveste nel processo penale. Difatti questi, al pari del giudice, e' soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma secondo, Cost.) e si qualifica come "un magistrato appartenente all'ordine giudiziario, collocato come tale in una posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere", che nell'adempimento della doverosa iniziativa penale "non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge (sentenze nn. 190 del 1970 e 96 del l975)". Ben si comprende, da una valutazione sinottica dei principi suesposti, che realizzare la legalita' nell'uguaglianza, mediante il principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, e' il frutto di una scelta consapevolmente operata dal costituente come punto di convergenza di un complesso di principi cardine dell'impianto processuale, che l'introduzione del nuovo modello processuale non ha minimamente incrinato (ne' avrebbe potuto farlo), dal momento che la ripartizione dei ruoli finalizzata alla eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudicante ed organo dell'accusa, con particolare riferimento alle scottanti tematiche della liberta' personale e della formazione della prova, non inferisce necessariamente che, sul piano strutturale ed organico, il p.m. venga considerato avulso dalla Magistratura, costituita in ordine autonomo ed indipendente; basti in merito considerare che "nell'architettura della delega, infatti, il ruolo del p.m. non e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato" (cfr dir. n. 37 ...), principio confluito nella redazione del nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art. 29 del testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988 n. 449). Dal principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale consegue, quale naturale corollario, l'esigenza che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice, che finisce con il ricomprendere una sorta di favor actionis, che, se da un lato comporta il bando di ogni contrapposto principio di opportunita' processuale (concepibile nei soli sistemi improntati da un esercizio facoltativo dell'azione penale), impone che, nei casi dubbi, l'azione venga esercitata e non omessa (in dubio pro actione). Proprio in merito alla assoluta inderogabilita' ai principi su' menzionati la Corte ha sovente enunciato che l'esigenza della indisponibilita' degli stessi deve ritenersi immanente alla struttura processuale introdotta nel 1988, valutata nell'ottica legalitaria costituzionale, dal momento che ha reiteratamente enunciato, quali cardini irrinunciabili nel sistema processuale, il principio di tendenziale completezza delle indagini (cfr sentenza n. 92/1992); quello di tutela della effettivita' dell'azione, finalizzato a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente (per questo insoddisfacente), mediante la predisposizione di istituti ad hoc quali l'indicazione, da parte del g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (artt. 409 comma 4, 415, 554, comma 2, c.p.p. - cfr sentenze n. 409/1990 e 445/1990), l'opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, il potere di avocazione del procuratore generale, l'ordine di formulare l'imputazione (c.d. coattiva o iussu iudicis ex art. 409 comma 5 c.p.p.). Tutte argomentazioni riprese ed ulteriormente valorizzate dalla Consulta che, nel portato contenutistico della sentenza n. 111 del 1993, nell'individuare i naturali limiti costituzionali ad un processo penale inteso come "processo di parti, nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano", riportando sui binari della pari dignita' dialettica nell'agone processuale (come tecnica di risoluzione dei conflitti) cio' che, a livello concettuale, poteva postulare velleitarismi dispositivi che stridono con i principi di riferimento con cui il processo deve armonizzarsi. Cio' in quanto lo scopo del processo penale deve essere individuato nell'esigenza di "accertare i fatti onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale", finalita' che non puo' ritenersi travolta (o sovvertita) dalla entrata in vigore del codice del 1988, ad impianto tendenzialmente accusatorio, avendo sul punto la Corte inequivocamente puntualizzato che "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentenze nn. 111/1993, 255/1992 e 258/1991); il fondamento costituzionale di siffatte pronunce viene rinvenuto dalla valutazione combinata del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge penale, dal principio di legalita' (che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate, cfr sentenze n. 111/1993 ed 88/1991) e di inviolabilita' della liberta' personale, cui si potrebbero agevolmente aggiungere il principio di personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per il fatto commesso che gli sia psicologicamente imputabile, per cui appare chiaro che sono il fatto e la sua imputabilita' l'oggetto dell'accertamento giudiziale), il principio di presunzione di non colpevolezza (l'onere della prova in capo al sostenitore dell'accusa e' criterio logico e garantistico, che dimostra l'impegno dell'ordinamento nella ricerca della verita'), il principio di obbligatorieta' dell'azione penale (che si giustifica proprio perche' non tende ad altro se non all'accertamento, secondo verita', della ipotesi contenuta nella notizia di reato ed alla obiettiva applicazione della legge), nel principio di difesa (la verita' puo' essere affermata solo se garantita dalla effettiva presenza del difensore nel processo), nel principio di indipendenza e liberta' morale del giudice nel momento del giudizio (principi che potrebbero rivelarsi inutili o dannosi se il giudizio dovesse mirare a qualche cosa di diverso dalla ricostruzione veritiera del fatto ed all'applicazione della legge). Tutte le suesposte finalita' devono tuttavia essere perseguite mediante la celebrazione di un processo contraddistinto dal contraddittorio dibattimentale, individuato dal legislatore come metodo migliore per perseguire lo scopo istituzionalmente devoluto alla giurisdizione che, in una con l'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione, nel giudice, di un convincimento libero da influenze pregresse" (sentenza n. 111/1993). La Corte, tuttavia, ha collateralmente osservato che proprio perche' il fine del processo penale e' da individuarsi solo ed esclusivamente nella ricerca della verita', "l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento ... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sentenza n. 255/1992); ne consegue che "ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 5, comma secondo, Cost.) che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' del connesso principio della obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale (cfr sentenza n. 88/1991) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione" (sentenza n. 111/l993). D'altro canto i giudici della Consulta hanno gia', nel recente passato, indicato i numerosi casi in cui ben potrebbe (legittimamente) verificarsi una formazione della prova in deroga ai principi del contraddittorio dibattimentale o a quello della oralita', costituito dall'immediato approccio del giudice con la prova, nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500, comma 4, 503, comma 5 e 6, 512, 513 - sentenza n. 255/1992); cio' in quanto la necessita' di non disperdere elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale" giustificava le menzionate eccezioni informandolo al c.d. principio "di non dispersione delle prove" (sentenza n. 255/1992) in tal modo indicando la coesistenza, tra le pieghe del codice di rito, di un procedimento probatorio alternativo e sussidiario rispetto a quello principale, fondato sul contraddittorio nella formazione della prova, percorribile allorquando quest'ultimo (che resta l'asse portante del nuovo rito) si trovi, per qualsivoglia motivo, o nella impossibilita' di funzionare o si riveli inadeguato a produrre elementi di prova genuini. La coesistenza di tale procedimento alternativo e sussidiario, come costantemente configurato dalle recenti pronunce surrichiamate, trova il suo fondamento per un verso sulla figura costituzionale del p.m. e per l'altro nella esigenza di riaffermare la indefettibilita' della giurisdizione penale, principio intimamente correlato a quelli di uguaglianza e di legalita'. Proprio elaborando le tematiche suesposte con riferimento non solo alla fase procedimentale della ammissione della prova, ma altresi' a quello della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha puntualmente affermato che siffatte regole di predeterminazione legale del valore euristico delle prove, nel momento in cui ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico, necessario per pervenire ad una giusta decisione, si appalesano dissonanti rispetto ai principi informatori del codice di rito che "fa salvo il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti" (art. 192 c.p.p., cfr sentenza n. 255/1992) - sentenza n. 111 del 1993. Sul tema poi del ruolo delle parti del processo, cui si correla la pretesa coesistenza, in materia di prova, del c.d. principio dispositivo, la Corte, nella sentenza n. 111/1993, ha statuito: "la configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 come eccezionale e quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega, ne' nel tessuto normativo concretamente disegnato dal codice". E' per la verita' incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale; in caso contrario si verrebbe a recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione delle condotte criminose, che quelle norme vietano. Difatti si appalesa assai indicativo riconoscere che il codice di rito non prevede procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione, come dimostra il considerare che ad un simile esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta delle parti, contraddistinto dall'intervento, integratore dell'efficacia dell'accordo, della pronuncia del giudice, che non puo' omettere il suo doveroso controllo fino a giungere a sindacare, nel merito, la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e della congruita' della pena concordata, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma terzo, Cost. (cfr sentenza n. 313/1990). Orbene, argomentando ex adverso dalla logica inferenza dei riferiti principi costituzionali, puo' affermarsi che un principio dispositivo non puo' ritenersi esistente neanche sul piano probatorio, in quanto cio' significherebbe rendere disponibile, sia pure in modo indiretto, la stessa res iudicanda. E la riprova sul punto la si rinviene da una non superficiale valutazione delle norme che regolamentano lo svolgimento dell'altro rito speciale (il giudizio abbreviato), in cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti, dal momento che l'accordo intervenuto tra queste sulla utilizzabilita' degli indizi (che diventano prove) rinvenibili nel fascicolo del p.m. e sol per questo utilizzabili, non vincola il giudizio sulla loro concludenza ed idoneita' a sorreggere una delibazione di merito "allo stato degli atti", dovendo la fusione delle volonta' formare oggetto del controllo del giudicante circa la concreta decidibilita' del procedimento, alla stregua degli elementi gia' disponibili. Aggiungasi che la Corte, con la sentenza n. 81 del 1991, nel dichiarare la illegittimita' costituzionale parziale del combinato disposto di cui agli artt. 438, 439, 440, 442 c.p.p. ha affermato: "E' invece fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui la normativa impugnata, vista dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo, tanto nei rapporti tra p.m. ed imputato, quanto nei rapporti fra imputato ed imputato. Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e di ragionevolezza una disciplina che autorizza il p.m. ad opporsi non soltanto ad una determinata scelta del rito processuale ..., ma anche ad una consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna, senza neppure dovere esternare le ragioni di tale opposizione, cosi' sottraendola all'obiettiva ed imparziale valutazione del giudice. Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento (art. 2 n. 3 legge 16 febbraio 1987, n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti tra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sentenza n. 81/1991). Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990 la Corte rendeva interpretazione autentica nel momento in cui, in seno alla pronuncia n. 92 del 1992, evidenziava che "il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali, immotivate e quindi insindacabili, del p.m. l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena". D'altro canto l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva, neanche sul terreno del giudizio ordinario; valga in merito quanto ribadito dalla Consulta: "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro, per quanto possibile, pieno accertamento e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale, risultante dal mero confronto dialettico tra le parti, sulla verita' reale: altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale...". Come a dire che la formazione della prova in dibattimento nel contraddittorio delle parti (ed assicurando l'oralita' dell'assunzione) e' obiettivamente il migliore dei metodi acquisitivi, ma resta comunque uno strumento per assicurare l'acquisizione di un atto istruttorio, non puo' divenire il fine ultimo della dinamica processuale che tende, di contro, alla ricerca della verita' reale, al di la' delle opportunita' e delle convenienze di questa o quell'altra parte in contesa. Ancor piu' marcatamente l'affermazione di siffatto principio traspare dalla positiva previsione, nel codice di rito, dell'art. 507, che postula in modo inequivoco la inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova; sul punto: "questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma, inserita in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo alla iniziativa delle parti, conferisce al giudice il potere - dovere di integrazione, anche di ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza, da parte del giudice, dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". Per cui, previo espresso richiamo al pronunciamento delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 11227 del 6 novembre-21 novembre 1992, nonche' alla direttiva n. 73 delle legge delega, che prevede il "potere del presidente... o del pretore di indicare alle parti temi nuovi o incompleti utili alla ricerca della verita'" (potesta' prevista finanche con riguardo alla celebrazione della udienza preliminare ex art. 422 c.p.p., a nulla rilevando la diversa finalita' cui la stessa e' orientata, costituendo una mera pronuncia sul rito, connotata per questo da una minorata probatio) e di rivolgere domande dirette, la Corte proseguiva chiarendo che "il legislatore delegante ha cioe' esattamente considerato - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, comma secondo, Cost. - che la parita' delle armi delle parti, normativamente enunciata, puo' talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si' che il fine di giustizia della decisione puo' richiedere un intervento riequilibratore del giudice, atto a supplire alle carenze di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 c.p.p. e' dunque un potere suppletivo, ma non certo eccezionale... E' del resto evidente che sarebbe contraddittorio da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del p.m., conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere che costui formuli l'imputazione... e dall'altro negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica" (sentenza n. 111/1993). Traspare con evidenza che nella sentenza surrichiamata il giudice delle leggi ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale un processo penale inteso come "... tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali, onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere, nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo, quella sola verita' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello". In sintonia con siffatte premesse la Corte concludeva circa la incompatibilita' con i menzionati principi della operativita', propria di un processo di parti, "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio", cui conseguirebbe "... da un lato l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte pubblica e l'accentuazione della oralita' come strumento della formazione della prova in dibattimento, dall'altro la configurazione del potere di intervento del giudice in materia di prova come eccezionale...". Traendo le dovute conseguenze dalle affermazioni summenzionate la Corte, con riferimento alla fase dibattimentale istituzionalmente devoluta alla formazione della prova, ha considerato ostacoli irragionevoli (o in se' stessi, o rispetto al sistema): il divieto di testimonianza de relato della polizia giudiziaria (sentenza n. 24 del 1992); l'omessa previsione della acquisizione delle dichiarazioni rese da imputati in procedimento connesso, anche se rese alla polizia giudiziaria su delega del p.m., quando essi si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentenze nn. 254 del 1992 e 60 del 1993); l'utilizzo, ai soli fini della valutazione della credibilita' dei testimoni, delle dichiarazioni dagli stessi rese in fasi predibattimentali, acquisite al fascicolo dibattimentale sotto forma di contestazioni (sentenza n. 255 del 1992). Inoltre la Corte ha riconosciuto: l'acquisibilita', ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni rese dai prossimi congiunti che si siano avvalsi, in dibattimento, della facolta' di non rispondere (sentenza n. 179 del 1994); l'acquisibilita', ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale dal teste affetto da amnesia assoluta sui fatti di causa dovuta a sopraggiunta infermita' (ordinanza n. 20 del 1995). Sempre sulla spinta delle medesime motivazioni (modellate sui medesimi principi), la Corte ha inoltre dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p, solo se interpretato nel senso che possa consentire, nella inerzia delle parti, l'impulso giudiziale nella acquisizione della prova (sentenza n. 111 del 1993). Ostacolo irregionevole alla formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed all'esercizio della giurisdizione mediante l'individuazione di un meccanismo di disposizioni della prova: contrasto con gli artt. 3, 25, comma secondo, 101, comma primo, 112, comma 1, della Costituzione. L'art. 11 della legge 7 agosto 1997 n. 267 (nella parte in cui prevedono l'applicabilita' dell'art. 513 c.p.p., come modificato dalla legge ora citata, anche ai processi in corso per i quali e' stata esercitata l'azione penale ed e' intervenuto rinvio a giudizio) viola i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3, comma primo, Cost.) e di obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.). Uguaglianza dei cittadini davanti alla legge vuol significare (anche, ed innanzitutto) uguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale. Si osserva, preliminarmente, che gia' nel diritto penale sostanziale vige il principio della legalita' della pena, per il quale l'applicazione della sanzione penale in concreto non puo' essere rimessa all'arbitrio di alcuno, non puo' dipendere da scelte insindacabili ed immotivate. La Corte costituzionale (cfr. Corte cost. sentenza n. 92 del 1992) ha riscontrato, invero, l'incompatibilita' con il nostro ordinamento costituzionale, fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della pena, della disciplina del giudizio abbreviato che affidava a scelta arbitraria del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturivano effetti rilevanti sulla determinazione della sanzione (come detto). Anche il nostro sistema penale processuale (al pari di quello sostanziale), peraltro, rifiuta il "principio dispositivo"; si consideri che neppure la richiesta concorde delle parti vincola il giudice: ne' sul piano dell'accertamento di responsabilita' (si pensi ai poteri del giudice in presenza di una richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p. - sentenza Corte cost. n. 313 del 1990), ne' sul piano della prova (si pensi agli artt. 495 comma 4 c.p.p; 508 c.p.p.; 189 c.p.p.; 603 comma 3 c.p.p., che prevede la possibilita' per il giudice di appello di ordinare la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale anche d'ufficio; 606 lett. d) c.p.p. che prevede, quale caso di ricorso in Cassazione, la mancata assunzione di una prova decisiva; e all'art. 507 c.p.p. cosi' come interpretato dalla sentenza Corte cost. n. 111 del 1993). Cio' accade in ossequio ai principi di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale. L'obbligatorieta' dell'azione penale tende ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: sottraendo al pubblico ministero potere dispositivo in ordine al processo penale (e' appena il caso di osservare che le determinazioni del pubblico ministero sono sempre portate al vaglio del giudice, che ha efficaci strumenti per superare l'inerzia del procuratore della Repubblica), tale principio tende a garantire in concreto un'applicazione della legge uguale per tutti. Per ben comprendere il senso della prospettata questione di legittimita' costituzionale, va, pero', chiarito il significato profondo di tale principio. "Esercitare l'azione penale" non vuol significare, soltanto (e semplicisticamente), "elevare un'imputazione". Se finalita' del principio sono quelle di assicurare l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e di garantire l'effettivita' della tutela giurisdizionale (all'esercizio dell'azione penale corrispondono, invero, legittime aspettative delle persone offese e delle persone danneggiate dal reato), nel suo senso piu' profondo esso impone "la necessaria sottoposizione al giudice di tutte le fonti di prova legittimamente raccolte affinche' sia il giudice, sulla base di quelle prove, a condannare o ad assolvere". Ne consegue che obbligatorieta' dell'azione penale significa obbligatorieta' dell'accertamento di responsabilita', concetto che a sua volta inferisce la necessaria sottoposizione al giudice di tutte le fonti di prova legittimamente - secondo, per quel che qui rileva, la normativa all'epoca vigente - raccolte (altrimenti l'accertamento sarebbe obbligatorio nella forma, ma non nella sostanza). D'altro canto, le norme che regolano la sottoposizione al giudice delle fonti di prova devono essere eguali per tutti: affinche' il principio di uguaglianza sia rispettato, l'accertamento di responsabilita' deve avvenire, con la stessa efficacia, e pregnanza, per tutti i cittadini che versino in situazioni simili; cosicche' non sembra rispettoso di questo principio un sistema che rimetta all'arbitrio di una delle parti la scelta di sottoporre al giudice una fonte di prova gia' raccolta. L'accertamento di responsabilita' deve avvenire, dunque, con adozione di criteri precostituiti ed uguali per tutti gli imputati che versino in situazioni simili, tali da consentire al giudice di conoscere (salvo il rispetto dei diritti di difesa positivizzati) tutte le prove legittimamente acquisite. Si vede bene che l'elevare imputazione e', in definitiva, atto (bensi' di ineludibile garanzia, ma) meramente prodromico rispetto a tale necessaria sottoposizione al giudice delle fonti di prova legittimamente raccolte, perche' il giudice si pronunci sull'accertamento di responsabilita'. Obbligatorieta' dell'azione penale e principio di uguaglianza postulano, dunque, un modello processuale che tenda (sia pure attraverso lo schema dialogico) all'accertamento della verita' "reale". Se la prova diviene disponibile, il principio di uguaglianza e quello di obbligatorieta' dell'azione penale risultano, nella sostanza, violati. Si potranno, in definitiva, celebrare processi in cui la decisione sara' aderente alla realta', e processi in cui la decisione sara' aderente ad un modello astratto e processuale di verita' (quelli in cui al giudice si sottraggono elementi di conoscenza della verita'), con ingiustificata ed irragionevole disparita' di trattamento tra imputati che versano in simili condizioni e tra persone offese che versano in simili condizioni, a seconda della prevalenza dell'uno piuttosto che dell'altro modello processuale (e' violato il principio di uguaglianza). Vi potranno essere, difatti, processi in cui la decisione non sara' aderente alla verita' storica, benche' questa emerga da atti processuali che il giudice non puo', tuttavia, conoscere (e' violata la disposizione dell'art. 112 Cost.: se la produzione di una prova decisiva e' rimessa all'arbitrio di una delle parti, l'azione penale rimane obbligatoria formalmente, ma l'accertamento di responsabilita' cui essa tende diviene del tutto aleatorio nella sostanza, ed il principio e', pertanto, inesorabilmente violato). Del resto la tesi qui esposta si ricava dalla sentenza n. 113 del 1993, con la quale la Corte cost. ha affermato che "Il metodo dialogico di formazione della prova e' stato prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro ... pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale ... su una verita' reale; altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". L'oralita' e' dunque un mezzo, un mezzo eletto ma pur sempre un mezzo, per giungere all'accertamento della verita'. Non puo' divenire un fine. Pertanto, tutte le fonti di prova raccolte nel rispetto dei diritti di difesa, cosi come processualmente garantiti, devono poter essere sottoposte alla cognizione del giudice che, naturalmente, sara' nella condizione di conferire loro il correlato significato euristico; cio' significa che deve esistere un sistema di norme che stabilisca a priori ed ex ante condizioni certe (di garanzia per l'imputato, ma altrettanto garante dell'esigenza che il processo consegua il fine che gli e' proprio), rispettate le quali, la fonte di prova legittimamente raccolta e' sottoponibile al giudice. Ammettere casi in cui una fonte di prova, pur legittimamente raccolta (senza violazioni processuali) divenga (per cause non prevedibili, ne' superabili da una ragionevole attivita' da svolgersi ex ante) non conoscibile dal giudice vuol dire violare i suddetti principi di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, effettivita' della tutela giurisdizionale. Cio', ad avviso del tribunale, accade certamente con la disciplina dell'art. 513 c.p.p. nella parte in cui esso e' applicabile anche ai processi per i quali e' gia' intervenuto (magari da anni) il rinvio a giudizio. In realta', in sintonia con i principi enunciati, tutto il nostro sistema processuale e' pervaso (conformemente alla legge delega del 1988) dalla garanzia di salvezza delle prove non ripetibili in dibattimento: art. 511 c.p.p.; art. 360 c.p.p.; art. 392 c.p.p. L'esigenza dell'oralita' del processo e' temperata (proprio in ossequio ai detti principi costituzionali enunciati dalla Consulta) da un sistema di norme che: salvano il valore degli atti gia' compiuti qualora questi, per circostanze non prevedibili, siano divenuti irripetibili; danno, comunque, alle parti la possibilita' di anticipare l'acquisizione di prove, se e' prevedibile che queste non potranno essere escusse davanti al giudice del dibattimento. La nuova disciplina processuale ha invece introdotto casi in cui al giudice e' precluso (per circostanze non prevedibili, poiche' rimesse ad una scelta legislativa che trova applicazione anche per il passato) conoscere una fonte di prova, benche' le parti non abbiano avuto, a suo (ragionevole) tempo, ex ante: ne' la possibilita' di prevedere tale evenienza; ne', soprattutto, la possibilita' di porvi rimedio (poiche' l'incidente probatorio era, al tempo in cui la fonte di prova in questione veniva - legittimamente - raccolta, consentito a condizioni non sussistenti nei casi di odierno rifiuto del coimputato di sottoporsi ad esame in dibattimento); e cio' al di fuori di qualsiasi sanzione processuale collegata a violazione del diritto di difesa. E' pur vero che la disciplina in vigore riconosce la possibilita' di chiedere l'incidente probatorio anche se e' gia' intervenuto il rinvio a giudizio, ma e' proprio questo il punctum dolens: se, nel frattempo (anche per il lungo tempo trascorso, in alcuni processi, tra la data del rinvio a giudizio e l'udienza, concretantesi a volte in diversi anni), e' maturata nell'imputato di procedimento connesso la decisione di non rispondere, tale decisione - pur essendo, di fatto, una causa sopravvenuta, non prevedibile (al tempo in cui il p.m. assumeva l'interrogatorio di quella persona) e non superabile (al tempo in cui veniva raccolta la dichiarazione) riceve trattamento affatto diverso: sia rispetto alle altre cause sopravvenute ed imprevedibili che rendono impossibile la ripetizione dell'atto (le quali consentono la lettura dei verbali degli atti divenuti irripetibili); sia rispetto alla decisione di non rispondere che dovesse maturare in imputati per i quali - oggi - puo' tempestivamente cristallizzarsi la prova (prima che essi maturino questa decisione). E' evidente, allora, che gli artt. 1 e 6, comma 1, legge 7 agosto 1997 n. 267, in quanto consente l'applicabilita' dell'art. 513 come modificato dalla legge citata anche ai processi gia' in corso di trattazione per i quali e' stata esercitata l'azione penale, viola gli artt. 3, 112, 24 della Costituzione. Se vi e' sin dall'inizio una scelta di non rispondere da parte di un imputato, rimane nel processo un difetto di conoscenza che dovra' - se possibile - essere superato con altri strumenti processuali; ma se l'imputato ha reso dichiarazioni davanti ad organi legittimati a raccoglierle, non puo' tale imputato restare arbitro della scelta se investire o meno l'organo giudicante della conoscenza di queste dichiarazioni, pur non avendo avuto il p.m., al tempo in cui tali dichiarazioni furono rese, la possibilita' di premunirsi contro tale scelta. Si rappresentano, ad esempio, alcuni casi di macroscopiche disparita' di trattamento che deriverebbero dall'applicazione della norma in esame ai processi per i quali e' gia' intervenuto il rinvio a giudizio. Si consideri inoltre, con riferimento al generale principio ispiratore della nuova normativa, la disparita' di trattamento tra imputati in indagini preliminari tutt'ora in corso, che subiscono gli effetti di un incidente probatorio tempestivamente richiesto, ed imputati nei cui confronti solo irragionevolmente potrebbe chiedersi l'incidente probatorio, per essere, ormai da anni, intervenuto il rinvio a giudizio ed essere imminente il dibattimento: l'atteggiamento processuale che i coimputati in questi processi potrebbero tenere nel corso dell'incidente probatorio e' equiparabile a quello che potrebbero tenere in udienza, con l'eguale risultato di fare entrare il doveroso accertamento della verita' in una fase di stallo insuperabile, superabile soltanto con una decisione di assoluzione per essere venuta meno la prova della commissione del singolo fatto criminoso, il che finisce con il travolgere la stessa giuridica sussistenza del fatto - reato oggetto di imputazione. Si consideri la disparita' di trattamento tra imputati che subiscono gli effetti di dichiarazioni precedentemente rese da coimputati, per sopravvenuta impossibilita' di ripetizione dell'esame (nel caso di morte del coimputato); ed imputati (magari nello stesso processo dei primi) che non subiscono gli effetti delle dichiarazioni di altri coimputati pur essendovi una causa sopravvenuta (rifiuto di rispondere) che riceve un irragionevole trattamento processuale diverso. Nel primo caso il giudice conosce e valuta le dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato (ai sensi dell'art. 192, comma 3 c.p.p.), nel secondo caso no. La norma in questione, pertanto, sembra funzionale ad un modello di processo che non tende alla ricerca della verita', ma ad una decisione correttamente presa in una contesa in cui un esito processuale vale l'altro, purche' "correttamente" ottenuto: tale modello processuale e' quanto di piu' lontano vi possa essere dal nostro ordinamento costituzionale, che garantisce i diritti di difesa come presupposto di un processo che tenda pur sempre (artt. 3, 24 e 112 della Costituzione), nel rispetto di quei diritti, ad accertare la verita' e ad assicurare l'effettivita' della tutela giurisdizionale. Difatti garanzia degli inviolabili diritti della difesa non puo' tradursi nell'esigenza di assicurare una aprioristica impunita' a persone nei cui confronti vi sono (per essersi le stesse previamente e legittimamente formate, sia pure in embrione) fonti di prova di colpevolezza solo perche' queste ultime, per il capriccio di una delle parti, imprevedibile ed insuperabile al momento della loro embrionale formazione, non possono essere conosciute dal giudice. Sul punto, difatti, non puo' omettersi di rilevare che l'esercizio della facolta' di non rispondere da parte dei soggetti predetti impedisce in toto la rinnovazione dibattimentale degli atti (che comunque erano stati legittimamente formati) ed una nuova acquisizione, nel contraddittorio delle parti, di elementi probatori provenienti dalla stessa fonte, per cui, pur in presenza di tutti i presupposti (in astratto) per una formazione della prova con metodo dialogico, interviene l'imprevedibile esercizio, da parte di imputato di procedimento connesso, di una facolta' riconosciutagli dalla legge ad impedire e precludere la possibilita' del contraddittorio; cio' a causa di un atto discrezionale, immotivato, insindacabile, frutto di una personale valutazione che l'imputato in un procedimento connesso fa dei propri interessi processuali (ed anche extraprocessuali), tuttavia in grado di ripercuotersi irrimediabilmente sull'intero procedimento penale in corso, che sol per effetto di tale opzione non appare piu' in condizione di conseguire il fine che gli e' proprio, addivenire alla ricerca della verita' reale. Orbene non puo' disconoscersi che, quantomeno con riferimento ai casi in cui siffatta impasse sopravvenga in un processo penale gia' da tempo incardinato (e gia' in fase dibattimentale), si verifichi una situazione parificabile a quella della irripetibilita' sopravvenuta di atti, pur legittimamente formatisi, che tuttavia non possono piu' in alcun modo essere oggetto di vaglio da parte del giudicante; aggiungasi che la assoluta imprevedibilita' di siffatta evenienza la si verifica considerando la natura dell'atto che da luogo alla "irripetibilita'" (la semplice dichiarazione di avvalersi della facolta' di non rispondere) ed i diversi e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto che e' (diventato) titolare di quella facolta', alla decisione di esercitarla. D'altro canto chi abbia reso, nella fase di indagini preliminari, dichiarazioni a carico di altri ben si rende conto (anche nelle fasi processuali successive) che le stesse possono avere gravi conseguenze, sia per lui medesimo nel caso di confessione ovvero di falsita' (articoli 367 e segg. c.p.), che per il terzo che ne risulti coinvolto; e' evidente che tale pregressa assunzione di responsabilita' indurrebbe a ritenere (secondo l'id quod plerumque accidit) che l'imputato, o l'imputato in un procedimento connesso, reiterera' le dichiarazioni a carico degli accusati. In virtu' di queste considerazioni, ed alla stregua della valutazione del soggetto che puo' esercitare siffatta opzione, dei motivi (assolutamente imponderabili) che possono sospingerlo a cio', ben si puo' affermare che non e' possibile prevedere, prima che l'atto sia concretamente compiuto, se la facolta' verra' esercitata o meno. Ne' d'altro canto puo' ragionevolmente pretendersi che operi impossibili previsioni sui comportamenti delle controparti del processo o di altri processi (magari gia' conclusi con sentenza di condanna emessa dalla Corte di appello, e non ancora passati in autorita' di cosa giudicata) in quanto in tale ipotesi, ed in assenza di una disciplina positivizzata (e generalizzata) sui rapporti tra e collaboranti, si finirebbe per riconoscere effetti giuridici (sub specie inutilizzabilita' della prova) a possibili comportamenti strumentali e/o ingannatori di tali soggetti nei confronti del medesimo (estensibili, per il suo tramite, alla giustizia in senso concettuale che lo stesso, per volere costituzionale, personifica). Sorge a questo punto legittimo il dubbio se risulti compatibile con i principi costituzionali l'innesto, nella disciplina degli articoli 512 e segg. c.p.p. (come tralaltro rivisti dagli interventi modificatori della Consulta, in particolare sulla originaria disciplina dell'art. 513 c.p.p.) di meccanismi che, allo scopo di assicurare il contraddittorio, impediscano, in toto, l'utilizzabilita' di elementi di prova legittimamente raccolti dal pubblico ministero, sia pure connotati da una assenza di contraddittorio, e di cui sia imprevedibilmente sopravvenuta la "irripetibilita'" (id est impossibilita' di rinnovazione dell'atto divenuto inutilizzabile). Di certo non puo' omettersi di considerare, sul punto, che al pubblico ministero, attesa la fase processuale in cui il processo si trova, e' ontologicamente preclusa la possibilita' di chiedere, l'assunzione della prova mediante esperimento dell'incidente probatorio, i cui presupposti di ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata in vigore della stessa legge n. 267/1997, all'art. 4, comma 1, ne' appare siffatta preclusione probatoria recuperabile in qualche modo dalla solerte iniziativa del titolare della pubblica accusa, non essendo neanche astrattamente prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di assunzione della prova che gli sono proprie, al fine di evitare la perdita di un atto istruttorio, obiettivamente divenuto non rinnovabile; ne deriva la necessita', imposta dal principio di cui all'art. 3 della Costituzione, di assimilare, quanto all'aspetto della loro utilizzabilita' dibattimentale, la disciplina degli atti divenuti, come nel caso di specie, irrimediabilmente irripetibili a quella degli atti divenuti imprevedibilmente irripetibili. Cio' premesso, il dubbio poc'anzi evidenziato circa la compatibilita' del meccanismo delineato (dal legislatore della novella) ai principi costituzionali, sembra alimentato dalla stessa filosofia codicistica che traspare, sin dall'origine del varo del nuovo modulo processuale, in tutti i casi di imprevedibile irripetibilita' dell'atto, ove era stato previsto un meccanismo che consentisse il recupero dello stesso. Si prevedeva, in altri termini, che nel caso in cui (senza che taluna delle parti vi avesse dato luogo) si fosse verificata una ipotesi di irripetibilita' del singolo atto processuale, in funzione probatoria, il metodo di acquisizione probatoria principale (improntato alla oralita' ed al contraddittorio), per motivi contingenti ed imprevedibili ex ante, faceva posto ad un metodo di recupero, eventuale e sussidiario, che seppur improntato a diverse connotazioni formative, comunque consentiva di utilizzare le dichiarazioni gia' rese, conferendo poi al giudice il prudente apprezzamento delle stesse in funzione decisoria. Al contrario il recente intervento novellatore della disciplina dell'art. 513 c.p.p. ha direttamente ed esplicitamente introdotto un meccanismo di blocco, a discrezione delle parti, del regime sussidiario ed alternativo di formazione della prova, esperibile nella sola evenienza della sua irripetibilita' dibattimentale, delineando un singolare modulo acquisitivo fondato sulla subordinazione al consenso di tutte le parti, compresi i soggetti a carico dei guali sono stati raccolti gli elementi in sede di indagini, dell'assunzione al fascicolo del dibattimento degli elementi di prova divenuti imprevedibilmente "irripetibili" (rectius imprevedibilmente "non ripetuti"). Ed il sospetto di illegittimita' costituzionale del menzionato meccanismo di recente introdotto nella dizione normativa dell'art. 513 c.p.p., non puo' appalesarsi manifestamente infondato, alla stregua dei principi su evidenziati, sistematicamente riaffermati da non poche pronunce della Corte costituzionale. Con particolare riferimento, poi, alla conformita' della disciplina in parola al principio di ragionevolezza nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112 della Costituzione), non puo' che rimarcarsi che gli atti de quibus sono stati indubbiamente formati in assenza di contraddittorio ed in segreto, nel corso delle indagini preliminari, ma si tratta pur sempre di atti (giova rimarcarlo) compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' orientata solo ed esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sentenza n. 88/1991); aggiungasi che si tratta di atti che godono di particolari garanzie quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali, ossia documenti a fede privilegiata fino a querela di falso. Si consideri altresi che la utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini (tra le quali vanno ricomprese, a pieno titolo, le dichiarazioni rese dai coimputati e dagli imputati in procedimento connesso) non e' per il p.m. facoltativa, bensi' obbligatoria ex art. 112 della Costituzione; per questo disporre che atti sui quali il ha fondato il doveroso esercizio dell'azione penale e della sua articolata funzione, guando siano divenuti imprevedibilmente "irripetibili" (con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al medesimo) siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso di tutte le altre parti processuali, ivi compresi gli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' dispiegato, in base alla legge, i propri dannosi effetti, si atteggia come un irragionevole ostacolo al naturale esercizio dell'azione penale ed una insuperabile contraddizione ordinamentale. Risulta, in altri termini, gravemente contraddittorio da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro eventuali negligenze o deliberate inerzie del p.m. conferendo al giudice per le indagini preliminari tutti i poteri di controllo positivizzati nell'art. 409 c.p.p., e dall'altro consentire che l'utilizzo di atti delle indagini, sui quali si e' gia' legittimamente fondato l'esercizio dell'azione penale sino a guel momento espletatasi - e che siano divenuti imprevedibilmente ed irrimediabilmente irripetibili, possa essere impedito dall'imputato in procedimento connesso con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta', concretizzatasi nell'espressione del rifiuto di rispondere. Ne' puo' valere a fungere da riequilibratore di una evidente (ed irragionevole) sperequazione il rimedio positivizzato, fondato sulla formazione dell'accordo delle parti circa la consistenza del materiale probatorio sottoponibile alla valutazione del giudice; basti sul punto considerare gli effetti devastanti riconducibili all'eventualita' (invero non solo meramente astratta) in cui sia lo stesso p.m. (convinto di poter agire quale mera parte processuale e dimentico dei doveri impostigli per legge) ad opporsi all'acquisizione delle dichiarazioni rese, in sede di indagini preliminari, dai soggetti indicati dall'art. 210 c.p.p., e divenuti imprevedibilmente "irripetibili"; ci si troverebbe, appare con fin troppa evidenza, in presenza di un obiettivo ed irreparabile annichilimento del diritto di difesa dell'imputato (art. 24 della Costituzione), nel caso in cui si concretizzasse nella impossibilita' processuale di acquisire elementi a lui favorevoli, ed ad un insuperabile "paradosso processuale" nell'evenienza in cui il titolare della pubblica accusa operasse una specie di ritrattazione dell'esercizio dell'azione penale, ove dia luogo alla materializzazione del divieto investendo elementi posti a fondamento della tesi accusatoria. Con riferimento specifico alla fattispecie concreta sottoposta al vaglio del tribunale, la ragionevolezza della introduzione del delineato ostacolo alla formazione del giudiziale convincimento dell'organo decidente si presta ad insuperabili censure nel momento in cui ingenera una ingiustificabile disparita' di trattamento tra i coindagati dei medesimi fatti che siano stati sottoposti al giudizio c.d principale, celebratosi innanzi al tribunale di Castrovillari e gia' riesaminato in sede di giudizio di appello, e gli odierni indagati, le cui posizioni, solo a causa di un banale difetto di notifica, venivano stralciate dal procedimento gia' incardinatosi nei confronti di altri coimputati (che per esigenze di celerita' nella sua definizione non poteva ulteriormente appesantirsi di ulteriori dilazioni) e giudicate a parte dal tribunale, riunito in diversa composizione, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 371/1996. Concludendo il nuovo assetto normativo, se da un verso viola il diritto di difesa qualora nei confronti dei coimputati siano gia' state pronunciate sentenze definitive utilizzabili in malam partem, per l'altro lascia all'imputato eccessivo margine nel momento dell'acquisizione della prova, innovazione quantomeno singolare che fortemente e negativamente incide sul doveroso accertamento della verita' "reale" e si proietta oltre i dichiarati fini di garantismo processuale. B) Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 210, comma 4, in relazione all'art. 513 c.p.p. (cosi' come novellato dall'art. 1, legge n. 267 del 1997) nella parte in cui prevede che l'imputato in procedimento connesso (la cui posizione processuale sia stata gia' definita con sentenza di condanna, ancorche' non definitiva) il quale abbia reso dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione davanti al p.m., possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere. Dal tenore letterale della "novella" del 1997 emerge con chiarezza la scelta del legislatore (valorizzatrice, tra l'altro, del principio fondamentale della separazione, tendenzialmente netta, delle diverse fasi procedimentali, con la correlativa distinzione dei regimi di efficacia e utilizzabilita' degli atti in esse compiuti) di "rafforzare" (rectius: riaffermare nello specifico "contesto dibattimentale" di formazione del materiale probatorio, rilevante ai fini di una giusta decisione giurisdizionale) la salvaguardia del contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come inviolabile diritto delle parti: scelta quest'ultima, in piena sintonia con lo spirito informatore della normativa processuale introdotta nel 1988, la quale - nell'ottica di un sistema tendenzialmente accusatorio - ha appunto fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita' nella formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice investito della potesta' deliberativa, nel merito, dell'ipotesi accusatoria formulata dal p.m. e portata al suo vaglio giurisdizionale; cio', in attuazione, tra l'altro, delle garanzie processuali delineate dall'art. 6, comma 2, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Cio' posto, - e pur a voler condividere, in via di principio, la ratio ispiratrice dell'intervento novellatore del legislatore del 1997 - ritiene il Collegio che il ''meccanismo'' processuale, al riguardo, prescelto (limitatamente alla posizione dell'imputato in procedimento connesso), e cioe' l'aver ''condizionato'' la possibilita' di lettura - e la conseguente acquisizione al fascicolo del dibattimento - delle dichiarazioni rese ai sensi del comma 1 dell'art. 513 c.p.p., al previo accordo di tutte le parti presenti nel processo, appare irrazionale se rapportata al riconoscimento (non oggetto di alcuna ''contestuale'' modifica normativa) della facolta', in capo a detto soggetto - ancorche' regolarmente comparso in sede dibattimentale - di avvalersi, comunque, della facolta' di non rispondere. Ed invero, il principale motivo di non ragionevolezza dell'intervento (rectius: del mancato intervento ''sistematico'' e coordinato) normativo de quo, emerge in maniera alquanto evidente, laddove si pongano a confronto due punti nodali del processo penale attualmente vigente (cosi' come ''costituzionalmente'' specificati dal noto intervento della Corte costituzionale con la sentenza 8 maggio-3 giugno 1992, n. 254): 1) la valenza delle dichiarazioni rese al p.m. da imputati di reati connessi (contro cui si sta attualmente procedendo o si e' proceduto in un giudizio conclusosi con sentenza di condanna), circondata da un alone di diffidenza rispetto alla incondizionata utilizzazione che di esse faceva il codice abrogato (art. 465); 2) la formazione della prova in dibattimento e, cioe', (come e' stato efficacemente sottolineato da autorevole dottrina) il "passaggio dal contraddittorio sulla prova al contraddittorio per la prova". Orbene, sembra potersi desumere - alla stregua del tenore letterale del nuovo disposto normativo di cui si discute - che il legislatore abbia voluto chiarire (sostanzialmente recependo, in parte qua, le numerose perplessita' suscitate "a caldo" dalla citata sentenza n. 254/1992) l'effettivo rilievo da attribuire ai surrichiamati principi, nel senso che sembra aver voluto attribuire prevalenza al principio, anch'esso di carattere generale, di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., secondo cui l'obbligo di valutare "le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona in un procedimento connesso ... unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilita'" si ricollega ad un criterio di garantismo nella valutazione di queste dichiarazioni, ignoto al vecchio rito, laddove si consentiva ex art. 465, comma 2, la lettura degli interrogatori degli imputati "di reato connesso" anche se condannati, senza subordinarne l'attendibilita' alla presenza di ulteriori elementi probatori. Si evince, pertanto, l'intendimento del legislatore di contenere l'acquisizione di tali dichiarazioni (art. 210, comma 3, c.p.p.), connotate da un preconcetto giudizio di disvalore, nell'alveo del processo accusatorio, rispetto al quale le letture dibattimentali, com e stato acutamente osservato, si pongono "... con la rudezza di una eccezione deviante, agli antipodi del polo accusa tono, da interpretare, percio', con il rigore imposto dai pericoli di ogni ipotetico abuso"; ne deriva, quale naturale corollario di una tale precisa scelta legislativa di fondo (lo si ripete, non irrazionale), che - persistendo, tuttora, per gli imputati di un reato collegato o in un procedimento connesso, l'incompatibilita' con l'ufficio di testimone (salvo loro proscioglimento con sentenza divenuta irrevocabile ) - il giudice non puo' esercitare, pur nel tentativo di perseguire il lodevole scopo di acquisire prezioso materiale probatorio dalla viva voce del coimputato, poteri diversi da quelli finalizzati a consentire un esame del medesimo nel contraddittorio delle parti del processo (''surrogabili'' con il solo "accordo/rinuncia" delle parti medesime). Un profilo di irragionevolezza (da ritenersi non manifestamente infondato) del nuovo meccanismo processuale, cosi' come delineato da1 comma 2, ultimo periodo dell'art. 513 c.p.p. si coglie invece laddove si consideri che il legislatore - pur sostanzialmente confermando di non poter rinunziare, in astratto, al contributo probatorio proveniente da soggetti, comunque informati sul fatto altrui, ''recuperandolo'' attraverso un esame a richiesta di parte o disposto d'ufficio - continua, pero', a subordinare l'acquisizione di tali dichiarazioni (art. 210, comma 3, c.p.p.) all'assistenza di un difensore di fiducia o d'ufficio all'esame di detti soggetti e al loro doveroso avvertimento della "facolta' di non rispondere", lasciando cosi' immutato il differente regime rispetto alla disciplina prevista per l'escussione dei testimoni. Si vuole, in altri termini, evidenziare come il legislatore, scegliendo di mantenere ''intatta'' la posizione sui generis (sconosciuta agli altri ordinamenti processual-penalistici) rivestita dagli imputati in un procedimento connesso, abbia, di fatto, creato sul punto un vero e proprio conflitto insanabile tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Ed infatti, dando preminente rilievo al diritto al contraddittorio degli imputati, in uno alla salvaguardia dell'opzione (di insostituibile matrice difensiva) di non sottoporsi all'esame dibattimentale, il legislatore ha finito per sacrificare, irragionevolmente, il principio della indefettibilita' della giurisdizione: invero, non appare futuristico prevedere che ciascuna parte puo', nel concreto dispiegarsi della dinamica processuale (sottesa a precise scelte processuali in funzione dei fini da conseguire), impedire ad nutum l'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso che a sua volta abbia voluto discrezionalmente avvalersi della facolta', allo stesso riconosciuta ex lege, di sottrarsi all'esame in contraddittorio con le parti del processo. Appare quindi evidente come siffatta evenienza finisca con l'arrecare ingiustificato pregiudizio al principio di indefettibilita' di una giurisdizione penale che, per il tramite del meccanismo dibattimentale, mira ad una piena conoscenza da parte del giudicante dei fatti oggetto di accertamento processuale, ovvero della cd. "verita' reale". Ed invero, non puo' non evidenziarsi come il rispetto della ratio ispiratrice della novella del 1997 si prospetti, in concreto, soltanto "formale", in quanto l'aver comunque "esentato" l'imputato in procedimento connesso dall'obbligo di rispondere alle domande in sede dibattimentale, fa venir meno la condizione di un effettivo contraddittorio nella fase genetica dell'acquisizione dei mezzi di prova rilevanti per la decisione; in tal modo realizzando una palese contraddizione, al di la' degli stessi lodevoli intenti della riforma, di principi ugualmente meritevoli di tutela, che andavano ragionevolmente contemperati. Cio', a fortiori nelle ipotesi in cui si sia notevolmente attenuato, fino addirittura a venir meno un interesse concretamente apprezzabile dell'imputato di reato connesso di sottrarsi al contraddittorio delle parti, avendo il medesimo gia' "definito", prima del concreto esperimento dell'esame, la sua posizione processuale nell'ambito del procedimento connesso. In altri termini il tribunale si chiede se non sia manifestamente irragionevole che debba essere considerato prevalente l'interesse dell'imputato di reato connesso, che ha gia' reso dichiarazioni auto nonche' etero indizianti e che sia gia' stato destinatario di sentenza di condanna (ancorche' non definitiva), rispetto a quello del coimputato che e' chiamato a difendersi per la prima volta in dibattimento, anche in ordine alle predette dichiarazioni. Non puo', infine, non evidenziarsi come la "integrazione" normativa sopra prospettata, quale soluzione alternativa per il superamento del dubbio di illegittimita' costituzionale creato dal mancato coordinamento dell'intervento novellatore del 1997 con il quadro ''sistematico'' di riferimento, consenta in ogni caso la salvaguardia dell'esigenza ("positivizzata" nel nuovo testo dell'art. 513 c.p.p. di restringere la lettura dei verbali delle dichiarazioni, rese ai sensi del primo comma del citato art. 513, all'esistenza di "fatti o circostanze imprevedibili" di natura effettivamente estrinseca rispetto alla singola "fonte di prova" (di per se' non irripetibile), e cioe', non necessariamente condizionati dalla mera volonta' di rifiuto di rispondere da parte del dichiarante ex art. 210, comma 4 c.p.p.; in uno con il gia' riconosciuto allargamento dei confini dell'incidente probatorio per consentire l'acquisizione di elementi di rilevanza probatoria con la garanzia del contraddittorio delle parti.